CONTAMINAZIONI DIGITALI NELLE PROFESSIONI
Gli skill tecnologici sono pervasivi. E i mestieri tradizionali si ibridano. Quali professioni ricercheremo in futuro? come dovremmo riqualificare le nostre competenze? come cambia il bilancio tra skills tecniche, soft skills e skills digitali? I robot sono una minaccia o un’opportunità?
L’ultima lavoratrice sulla terra ha un nome molto diffuso anche in Italia. Si chiama Alice ed è stata disegnata dal Guardian in un cartone animato diventato virale in rete. La sua storia estremizza le conseguenze di un mondo digitalizzato dominato dai robot. Alice come ultimo avamposto del lavoro umano, soppiantato dall’avanzata degli umanoidi.
Come appaiono oggi i nuovi robot?
Con due braccia, una serie di visori ed una capacità di computazione che permette l’apprendimento automatico, i nuovi robot, risultano i nuovi ragazzi di bottega. La differenza sostanziale è che non si stancano, non chiedono l’aumento, non fumano e non vanno mai in malattia.
La quarta rivoluzione industriale, per la prima volta nella storia unisce miglioramento tecnologico all’emulazione del pensiero. Questo fenomeno deve far riflettere, perché pur non avendo capacità creative, i nuovi robot potranno simulare perfettamente molti movimenti umani, con tutti i vantaggi che ne possono derivare dal punto di vista imprenditoriale.
Per definizione l’intelligenza artificiale secondo il De Mauro è l’ “insieme di studi e tecniche che tendono alla realizzazione di macchine, specialmente calcolatori elettronici, in grado di risolvere problemi e di riprodurre attività proprie dell’intelligenza umana”, andando avanti le tecniche di machine learning stanno migliorando sensibilmente facendo sì che qualsiasi sistema, compreso il termostato di casa potrebbero avere un motore di apprendimento automatico artificiale!
Non possiamo fermare il vento con le mani, ma se l’uomo progetta le macchine, e le stesse possono pensare in modo autonomo si rischia di perdere il controllo delle diverse implicazioni. Nei giorni scorsi abbiamo assistito al fallimento di un progetto Tesla per “troppa automazione”, segno che arrivati ad un certo punto per controllare non ci rimane che togliere la corrente agli impianti.
Il nostro consulente per la Ricerca e Innovazione, Ivano Corradetti, ci racconta: “Quando mi diplomai feci la tesina sulla rivoluzione informatica, con tutti i dubbi e le implicazioni che nel 2000 questa poteva comportare. In questa raccolta di documenti si parlava, tra l’altro, del Test di Turing che è un criterio per determinare se una macchina sia in grado di pensare, in pratica se un umano non sia in grado di riconoscere se stia interagendo con una persona o con un robot, ebbene, nel 2018 possiamo affermare che l’intelligenza artificiale ha superato il test perché gli si riconosce una vera e propria forma di “pensiero”. Se penso a Turing, padre dell’informatica, creatore della macchina di Turing, che rappresenta la concretizzazione della matematica in un pensiero di computazione, credo che se oggi vedesse cosa sta accadendo rifletterebbe seriamente sulla correttezza della direzione intrapresa a livello etico e filosofico”
Quali sono i rischi e le implicazioni concrete per il mondo del lavoro?
Il rischio principale ovviamente, è quello che a breve a lavorare ci saranno i robot mentre noi, “umani” staremo a casa, un rischio, che per alcuni potrebbe essere arginati da un nuovo umanesimo sul posto di lavoro: poche settimane fa la testata inglese del Guardian, ha suggerito alle aziende di inserire filosofi nei propri organici per migliorare le relazioni e il business. C’è di più. Secondo il Guardian le aziende dovrebbero dotarsi di una nuova figura interna, il chief philosopher officer.
Il grado di digitalizzazione
Paradossi di un mondo digitale che cerca vie di fuga. Perché questa rivoluzione impatta sulle competenze e di conseguenza sui processi e sui linguaggi. D’altronde gli effetti del digitale vanno ben oltre la creazione di nuove professioni e crescono in tutti i settori con un’incidenza media del 13,8%, con punte che sfiorano il 63% per le competenze digitali specialistiche nelle aree “core” di industria e il 41% nei servizi.
Lo certifica la quarta edizione dell’Osservatorio delle Competenze Digitali 2018 condotto da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia, realizzato in collaborazione con Miur e Agid. Si tratta di una fotografia che quest’anno coinvolge tutte le funzioni delle organizzazioni, realizzata con l’estrazione e l’analisi di big data presenti in 544mila ricerche di personale online per 239 figure professionali nel 2017.
Secondo i dati presentati in anteprima su Nòva è nell’industria che il Digital skill rate (Dsr), ossia la percentuale di competenze digitali rispetto a tutte quelle che sono richieste, va dal 20% per le professioni di supporto e management e al 17% per le figure “core”, con punte più elevate nella produzione, progettazione, ricerca e sviluppo, marketing e gestione delle risorse umane.
Formarsi al digitale
Alla sfida di investire nelle competenze specialistiche si aggiunge quella di adeguare i percorsi formativi di milioni di lavoratori con una formazione continua.
C’è poi la correlazione sempre più stretta tra digital skill e soft skill, ossia quelle abilità trasversali che connotano una più evoluta professionalità. La presenza di soft skill è infatti uguale o maggiore della media di settore nelle professioni con Digital skill rate più elevato, rispettivamente 35% nel commercio, 36% nei servizi e 35% nell’industria. Un’evoluzione che si lega alla diffusione pervasiva delle tecnologie, ma che per paradosso va oltre gli strumenti, le piattaforme, i linguaggi. Così l’azienda diventa reticolare nei processi e nell’execution. E in questo modo prova ad abbattere i silos del passato, anche grazie a figure specializzate e al tempo stesso trasversali: «La chiave è capire come integrare gli elementi della cultura umanistica con quelli tipici di una formazione scientifica e specialistica», precisa Mezzanzanica.
Managerialità diffusa
Dalle persone alla loro gestione. Nel segno di una guida manageriale apostrofata come “e-leadership”. Anche se la transizione al digitale è ancora ad un livello troppo basso nella scala delle priorità strategiche, nonostante sia richiesta nelle funzioni direttive e manageriali. «Il report fotografa la necessità di avere percorsi formativi in grado di generare competenze digitali di non rapida obsolescenza, rendere le competenze reperibili nel mercato del lavoro e aumentare la capacità del settore pubblico di trattenere al suo interno le migliori risorse Ict», afferma Simone Puksic, presidente Assinter Italia. Una mappatura semantica di un mondo che corre veloce. «La trasformazione digitale determina il cambiamento di professioni e competenze consolidate. Nascono nuove forme e opportunità di lavoro, ma anche necessità che richiedono soluzioni immediate», afferma Giuseppe Mastronardi, presidente Aica. «Anche in Italia il digitale è al centro di cambiamenti profondi. Servono figure professionali sempre più qualificate, capaci di misurarsi con gli scenari innescati dai trend più innovativi», precisa Marco Gay, presidente Anitec-Assinform. Ma attenzione. La trasformazione digitale non è solo fatta di tecnologie e processi. Perché impatta sulla cultura. «In fondo è come se dovessimo progettare che un intero Paese cambi lingua per connettersi col resto del mondo: il cambiamento va gestito con un lavoro capillare e concreto e ha come fulcro le piccole e medie imprese», dice Giorgio Rapari, presidente di Assintel. Così nell’agone digitale la partita deve essere giocata anche dai piccoli player. Perché occorre investire nel tessuto produttivo composto da una miriade di imprese. Per non lasciare indietro nessuno.
SI FA PRESTO A DIRE COMPETENZA
Passare dal sapere al saper pensare
Nel Regno Unito si vanno affermando le facoltà di “cognitive science”, che mettono insieme neuroscienza e filosofia, computer science e psicologia. Segno dei tempi di saperi che acquistano senso tanto più quanto sono integrati in maniera trasversale. Da lì usciranno i tecnici che metteranno a punto l’intelligenza artificiale, ma anche gli “istruttori” di robot e i mediatori che agevoleranno il rapporto tra umani e non umani. O forse ad altro ancora che oggi non sappiamo. Già oggi le professionalità più richieste non esistevano dieci o anche solo cinque anni fa e si stima che il 65% dei bambini che iniziano ora la scuola faranno lavori che oggi non esistono.
Non è un mistero che la nuova rivoluzione tecnologica e soprattutto la rapidità della trasformazione siano alla base dei grandi squilibri che stanno attraversando il mondo del lavoro, ma anche quello della formazione: non solo il sistema educativo fa fatica a tenere dietro alle richieste in continua evoluzione delle imprese, ma la scuola stessa non riesce a soddisfare le nuove esigenze formative e il mondo del lavoro non si prende cura dell’evoluzione formativa di cui avrebbero sempre più bisogno i dipendenti.
Complice una complessità crescente, il rapporto tra sistemi educativi e mondo del lavoro non è mai stato così complicato e nebuloso.
Anche l’Osservatorio delle competenze digitali sottolinea come una competenza che potrebbe essere considerata “tecnica” come il digitale non è più limitata alle mansioni tecniche ma è pervasiva anche nelle professioni non digitali. Per di più le stesse competenze digitali si vanno differenziando e accanto a quelle di base e specialistiche acquistano sempre maggior rilevanza competenze applicative e comunicative: «Nel digitale le competenze di base vengono date ormai per scontate, mentre diventano rilevanti il metodo e la capacità di utilizzo delle tecnologie per svolgere al meglio la propria professione – spiega Mario Mezzanzanica, direttore scientifico del Crisp di Milano Bicocca e curatore dell’Osservatorio: capire la logica del digitale integrandolo con le proprie conoscenze per affrontare al meglio un mondo che cambia».
Questa la vera sfida. Spesso si punta l’indice sul mondo della formazione, ma in questo anche le aziende risultano spesso un po’ troppo passive e faticano a investire sul cambiamento a livello professionale. Basta anche solo partire dalla struttura anagrafica del mondo del lavoro: nel 1993 la fascia di occupati tra 15 e 34 anni rappresentava il 41% del totale, oggi è crollata al 22%, mentre oggi gli over 55 sono il 20% rispetto all’11% di allora: «Stiamo perdendo per strada le competenze dei giovani – sottolinea Mezzanzanica -, siamo ricchi di competenze più obsolete – certo, anche di esperienza -, con minore capacità di cogliere il nuovo, anche e soprattutto a livello di management».
«Per sua natura, il sistema scolastico va senza dubbio a velocità più lenta del cambiamento, anche se spesso questo diventa una scusa – aggiunge Stefano Scarpetta, direttore Employment dell’Ocse. Il privato tende a non investire in formazione, in particolare in un mondo in cui il life-long learning, la formazione continua anche sul lavoro diventa cruciale».
La politica dell’attore pubblico diventa quindi fondamentale. Da questo punto di vista è innovativo il sistema francese di formazione dei lavoratori: già oggi gli imprenditori contribuiscono per lo 0,6%-1% del monte salari al sistema di formazione, ma ora «il focus viene spostato sul lavoratore, che sceglie il percorso concordandolo con il datore di lavoro sulla base delle prospettive: nell’ambito di una continua interazione tra studio e lavoro, è una grande scommessa di responsabilizzazione del singolo su se stesso», prosegue Scarpetta.