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Aziende familiari, troppi leader over 70

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Le imprese familiari non sono giovani. È questa la conclusione a cui giunge l’ultimo rapporto pubblicato dall’Aidaf – Family Business sullo stato di salute di questo tipo di società in Italia.
Il rapporto offre spunti significativi, perché confrontati con quelli del decennio precedente, nel mezzo della grave crisi finanziaria innescata dal fallimento di Lehman Brothers. Rispetto ad allora le nostre imprese di “famiglia” appaiono invecchiate: nel 2010, i leader aziendali di età superiore ai 70 anni erano il 20%, mentre oggi la percentuale è salita al 30 per cento. Questo significa che oltre un terzo delle famiglie imprenditoriali italiane è guidato da persone di età superiore a quella pensionabile.

Le cause della lontananza dei giovani dalle stanze dei bottoni sono molteplici e in parte, sono lo specchio dell’evoluzione del Paese. Il Paese invecchia, per un generale allungamento della vita delle persone e perché, in Italia, si fanno figli più tardi che in passato (se se ne fanno). Inoltre, anche la composizione delle famiglie è cambiata: i figli nascono spesso da diversi matrimoni o relazioni e ciò può complicare o rendere più delicato il passaggio generazionale.

In questo contesto, si discute dell’introduzione di una possibile legge che – come fu per la legge Golfo-Mosca – faciliti la presenza dei giovani nei consigli di amministrazione. La proposta prende spunto dagli effetti positivi della legge sulla parità di genere che ha determinato un incremento significativo della presenza femminile nei Cda delle società quotate. Va aggiunto che, come onda lunga, un’inversione a favore del pink power si sta verificando anche in altri contesti; è di questi giorni la nomina di Claudia Parzani a presidente di Borsa Italiana, mentre, nei mesi scorsi, sono state elette due donne alla presidenza di contesti tradizionalmente maschili quali il Consiglio nazionale forense e del Consiglio nazionale del notariato. È importante prendere atto dell’efficacia della legge Golfo-Mosca, ma è altrettanto necessario mantenere consapevolezza che non tutti gli obiettivi possono essere raggiunti efficacemente con lo stesso strumento.

Rispetto all’ingresso di giovani nei Cda, la fissazione di una percentuale riservata a persone under 40 potrebbe essere inefficace e persino iniqua sul piano sociale. Va detto che un intervento legislativo che si concentrasse solo sull’età dei componenti degli organi amministrativi sarebbe persino in contrasto con le scelte del legislatore in alcuni ambiti, come quello bancario, dove il criterio guida per la scelta degli amministratori è quello della competenza altamente specialistica.

È da valutare la funzionalità ed efficacia di un sistema a due velocità, che, mentre, chiede al sistema industriale di svecchiarsi, mantiene un atteggiamento iperprudenziale nel settore bancario e finanziario già ingessato dalle regole della vigilanza. Allontanare i due settori economici anche sul piano generazionale è davvero funzionale allo sviluppo e ammodernamento del Paese?

Peraltro l’introduzione di quote riservate a fasce d’età più giovani rischia di spostare il peso del glass ceiling generazionale solo su chi ha già superato oggi i quarant’anni. Ne deriverebbe una marginalizzazione di tale classe di lavoratori e professionisti, con una possibile perdita delle competenze da essa acquisite. Anche sul piano sociale, l’effetto sarebbe quello di creare uno scalone generazionale difficile da riequilibrare, con conseguente demotivazione di una parte importante della forza lavoro.

La soluzione va forse calibrata tenendo conto di un secondo elemento: in oltre il 60% delle società la leadership dell’organo di amministrazione è affidata a una sola persona. Il primo dato che mantiene lontani i giovani dai vertici aziendali è, allora, la tendenza a preferire “un uomo solo al comando”.

Assunta questa consapevolezza, la via di un intervento legislativo va tracciata promuovendo la composizione collegiale dell’organo amministrativo. Contemporaneamente, è consigliabile un intervento di aggiornamento dei requisiti di professionalità degli amministratori in modo da includere i criteri di diversità già suggeriti dai codici di autodisciplina e dalle indicazioni, anche comunitarie, di soft law. L’insieme di queste misure può avviare un cambiamento nelle scelte di governance delle società. Probabilmente, non si tratterrebbe di uno shock, ma di un percorso più graduale e sicuramente più idoneo a includere e conciliare gli interessi di tutti i soggetti potenzialmente coinvolti. Dialogo e inclusione sono, del resto, altri due capisaldi della sostenibilità e della responsabilità sociale di impresa. Gli approcci radicali provocano rivoluzioni, ma non è quello di cui abbiamo bisogno.

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